Dom Pérignon, il monaco che inventò lo champagne

Tutti sanno cosa sia il Dom Pérignon, ma pochi in realtà sanno chi sia Dom Pérignon.
Secondo alcune fonti la marca francese dello champagne più famoso del mondo prenderebbe il nome da un monaco benedettino, Pierre Pérignon, che nel lontano XVII secolo avrebbe inventato il vino con le bollicine. Nel 1688 Dom Pierre mette in atto il procedimento che per la prima volta rende i vini di Champagne, in origine rossi e fermi, “spumanti”, cioè dotati di schiuma e bollicine.
Monaco di “professione” e fine enologo per passione, Pérignon si dedicò alle vigne dell’abbazia di Hautvillers, nella regione francese della Champagne, dove era entrato nel 1668 come tesoriere e economo. Tra le sue mansioni era prevista anche la cura delle vigne, un lavoro che lo appassionò molto, tanto è vero che alla sua morte Dom Pierre lasciò ventiquattro ettari di terreno perfettamente tenuti, che producevano vini di buona qualità e molto apprezzati, riuscendo, proprio grazie alla produzione vinicola, a risanare le finanze dell’abbazia.
Secondo la leggenda lo champagne non sarebbe stato il frutto di un’intuizione o di un esperimento voluto, ma semplicemente il risultato di un errore. Il benedettino avrebbe scoperto la cosiddetta “presa di spuma” accorgendosi che alcune bottiglie di vino, lasciate in cantina ad affinare, erano scoppiate. Dom Pérignon infatti aveva avuto l’idea di far colare della cera d’api all’interno del collo delle bottiglie per assicurare una chiusura ermetica. Ma dopo qualche settimana, a causa dell’eccessiva pressione, le bottiglie scoppiavano, fu così che Pierre scoprì la “methode champenoise”.
Secondo un’altra versione, invece, Dom Périognon avrebbe scoperto la spuma dello champagne per caso; aromatizzando il vino con fiori e zucchero si sarebbe accorto che questi producessero una specie di spuma al momento dell’apertura delle bottiglie.
Se possiamo nutrire dei dubbi sulla sua effettiva invenzione dello champagne, non si può non riconoscergli il fatto di aver apportato dei miglioramenti nelle tecniche di produzione dei vini. Dom Pérignon, attraverso la sua attività, maturò nel corso degli anni una mirabile esperienza e conoscenza sulla coltivazione della vite, ricavando molte informazioni che successivamente annotò nelle sue memorie. Il monaco si era messo a studiare le varie tipologie di uva e ne studiava il prodotto. Si dice che fosse astemio ma che avesse un palato e un gusto così raffinato che assaggiando un solo acino d’uva riusciva a individuarne la zona di provenienza. Sapeva come scegliere le piante in base al tipo di terreno, come tagliarle, come mescolare le uve. Escogitò infatti la tecnica dell’assemblaggio, che consiste nel mettere insieme uve del medesimo tipo ma provenienti da zone diverse per ottenere annate omogenee e di qualità superiore. Contribuì notevolmente a migliorare la qualità dei vini dell’epoca, privilegiò il pinot noir, più adatto alla produzione dello champagne, rispetto al bianco, capì l’importanza di cogliere l’uva matura, migliorò la stabilizzazione dei vini. Si dice che fu sua anche l’idea di sostituire i tappi di legno con quelli di sughero, più leggero, impermeabile, molto più adatto a conservare la spuma dei vini. Sua sarebbe anche l’invenzione della gabbietta metallica. Ma soprattutto, sempre secondo la tradizione, ebbe l’intuizione di unire lo Chardonnay bianco con il Pinot nero, aprendo la strada alla leggenda del Dom Pérignon che conosciamo oggi. Insomma in conclusione diede un grande impulso alla produzione e al commercio di vino di tutta la regione dello Champagne.
I “detrattori” del monaco benedettino sostengono che Dom Pérignon non solo non abbia inventato lo champagne, ma che addirittura abbia passato la vita a cercare una soluzione per i suoi vini, che avevano quel fastidioso, quanto inspiegabile, difetto di rifermentare nelle bottiglie una volta giunta la primavera. Dom Pierre avrebbe quindi sempre cercato il modo di eliminare effervescenza e bollicine, che d’altra parte per molti suoi contemporanei rappresentavano una “depravazione del gusto”.
La stessa scuola di pensiero riconduce l’invenzione dello champagne agli inglesi. In effetti ad oggi non è stato ritrovato alcun documento, né tra le memorie di Dom Pérignon, né tra quelle dei suoi allievi, che attesti l’invenzione del vino con le bollicine. Al contrario a Londra esiste uno scritto datato 1662, quindi ben sei anni prima dell’arrivo di Dom Pérignon all’abbazia di Hautvillers, in cui l’autore fa riferimento a un procedimento che veniva messo in atto abitualmente da tavernieri e mercanti di vino inglesi. Pare che questi aggiungessero grandi quantità di zucchero e melassa in ogni tipo di vino per renderlo vivo e frizzante, e che poi lo conservassero all’interno di bottiglie di vetro molto più solide di quelle francesi e resistenti alla pressione. Con la primavera e l’aumento della temperatura la fermentazione riprendeva provocando il rilascio dell’anidride carbonica che, al momento dell’apertura, produceva le famose bollicine.

I grandi personaggi della ristorazione: Marie-Antoine Carême

Marie-Antoine Carême (1783-1833) sta alla cucina come César Ritz sta all’arte dell’ospitalità.
Ciò che li accomuna è senz’altro il fatto di essere stati autori di una grande rivoluzione all’interno del loro ambito lavorativo ma anche il soprannome che è stato loro affibbiato: come Ritz era noto come “re degli albergatori e albergatore dei re”, così Carême venne presto nominato il “cuoco dei re e il re dei cuochi”.
Sebbene gran parte della sua vita sia trascorsa a contatto con l’alta società e in ambienti di lusso, le origini di Carême sono molto umili. Ultimo di quindici figli, all’età di otto anni viene abbandonato dal padre, operaio squattrinato incapace di provvedere a tutta la famiglia. Questa circostanza drammatica si rivelerà in realtà una grande occasione per Marie-Antoine: accolto da un oste proprietario di una squallida bettola, avrà modo di familiarizzare fin da piccolo con il mondo della gastronomia e apprendere le sue prime lezioni di cucina. A quindici anni viene assunto come apprendista da Bailly, uno dei migliori pasticcieri di Parigi. Il suo destino è segnato e da quel momento in poi la sua carriera come cuoco e pasticciere è tutta in discesa, complici le doti naturali e la spiccata curiosità.
Secondo molti, Marie-Antoine Carême può essere considerato il fondatore della haute cuisine e sarebbe stato il primo nella storia a essere insignito dell’appellativo di chef. Certo è che Carême fece della cucina una vera e propria arte, per la prima volta regolata e codificata come fosse una sorta di scienza. Stabilendo per ogni ricetta i tempi di cottura e le quantità precise, Antonin (così veniva soprannominato) dà il via alla cucina moderna.
La fama di Carême è dovuta soprattutto alle sue indiscusse capacità di pasticciere, è nella creazione dei dolci che il giovane Marie-Antoine dà il meglio di sé, coniugando la sua abilità in cucina con una spiccata creatività. D’altra parte Carême ama moltissimo disegnare e, grazie alla sua straordinaria manualità, riesce a realizzare delle magnifiche torte e stupefacenti centrotavola, elaborati e dall’architettura complessa, tanto da lasciare sbalorditi anche nobili e ricchi signori e da attirare fin da subito richieste e ordini prestigiosi.
Come César Ritz aveva colto la necessità di creare degli hotel di lusso capaci di accontentare la nobiltà e l’alta borghesia, allo stesso modo Carême aveva capito che lo stesso lusso e la stessa scenografia sfarzosa dovessero prendere posto sulle tavole dei grandi personaggi dell’epoca.
La cura di Carême nella realizzazione delle torte è maniacale, il giovane parigino passa infatti le sue notti a disegnare, a fare calcoli complicati e a studiare le opere dei grandi architetti della classicità, che ha modo di osservare frequentando assiduamente il cabinet des estampes della biblioteca nazionale, dove, tra l’altro, impara da solo a leggere e scrivere. Antoine si convince presto che tra architettura e pasticceria non ci sia in realtà una grande differenza, anzi arriva a considerare la seconda un ramo, una specializzazione della prima. È proprio in questo campo che Carême lascia un segno indelebile nella storia della cucina, la sua attenzione per la decorazione monumentale e la presentazione scenografica dei piatti farà scuola.
Tra le invenzioni che vengono attribuite a Carême ci sarebbero i vol-au-vent, le meringhe e svariate salse di accompagnamento. Queste ultime rappresentano una piccola rivoluzione, sono infatti particolarmente leggere e delicate, pensate per esaltare il gusto delle pietanze, a differenza di quelle usate fino a quel momento, di derivazione medievale, che avevano lo scopo di coprire con un forte sapore la qualità scadente degli alimenti utilizzati.
Carême nel corso degli anni prende servizio come cuoco presso i grandi e potenti signori dell’epoca, che letteralmente se lo contendono: prima Monsieur de Lavalette, poi il principe di Tayllerand, infine il principe reggente d’Inghilterra, futuro re Giorgio IV. Successivamente Carême si trasferisce a San Pietroburgo presso la corte dello zar Alessandro I, e poi si ferma per qualche anno dai Rothschild, accrescendo a dismisura la sua fama.
Oltre che cuoco e pasticciere, Carême è stato anche un fine gastronomo, dedicò una buona parte del suo tempo a scrivere delle opere che ancora oggi possono essere considerate fondamentali per comprendere l’evoluzione della cucina. Aveva talmente a cuore i suoi studi che si dice che abbia speso gli ultimi istanti della sua vita a dettare alla figlia degli appunti. Due sono le opere principali di Carême: Il maître francese o un parallelo tra la cucina antica e quella moderna e Il pasticcere parigino del re, entrambe corredate da molte immagini, realizzate e curate dallo stesso autore.
Possiamo infine considerare Carême un designer ante-litteram, si dedicò infatti anche a disegnare alcuni utensili di cucina, come tegami, tortiere, stampini per dolci e il tradizionale berretto da cuoco, la toque a forma di fungo che sostituirà il semplice copricapo di cotone fino a quel momento utilizzato.

Antoine Augustin Parmentier

Se vi è capitato di visitare Parigi, molto probabilmente girando con il métro vi sarete imbattuti in una stazione un po’ particolare che ospita una singolare esposizione sulle patate. La stazione si chiama Parmentier, come Antoine Augustin Parmentier (1737-1813), l’agronomo che per primo comprese l’importanza nutrizionale delle patate, rivoluzionando le abitudini alimentari e la cucina occidentale. Il fatto che la capitale francese abbia voluto dedicargli una stazione della metropolitana, con tanto di mostra permanente a imperitura memoria, fa capire quanto il personaggio sia ammirato e celebrato.

Parmentier è stato il promotore di una piccola rivoluzione culturale e alimentare: farmacista, chimico e agronomo, studiò le proprietà nutritive delle patate, riabilitandole e sforzandosi di promuoverle come ortaggi nutrienti e salutari. Fino a quel momento infatti, il tubero era stato erroneamente disprezzato poiché lo si considerava pericoloso per la salute dell’uomo e addirittura colpevole di trasmettere la lebbra, a tal punto che veniva utilizzato solo per l’alimentazione dei maiali.

La “scoperta” delle patate avviene in occasione di uno studio condotto dallo speziale francese a partire dal 1771, in seguito a un concorso bandito dall’Académie de Besançon, in cui si chiedeva di elaborare un trattato che avesse per oggetto quegli ortaggi che, nei periodi di carestia, avrebbero potuto sostituire quelli consumati normalmente. Parmentier inizia così un’analisi approfondita delle caratteristiche del tubero di origine americana, partendo dalle intuizioni che provenivano dalla sua personale esperienza: durante la Guerra dei Sette Anni, il ventenne Parmentier, all’epoca farmacista dell’esercito, era stato catturato dai prussiani, e durante la prigionia non aveva mangiato altro che povere minestre e poltiglie a base di patate. Durante quel periodo si era soffermato ad analizzare le conseguenze di quel tipo di alimentazione sul suo corpo. Osservando che non ne derivavano effetti collaterali, e che anzi le sue forze non diminuivano, si era convinto dell’effetto benefico delle patate, che successivamente arrivò ad attribuire all’amido che esse contengono.

Una volta finita la guerra e rientrato in patria, Antoine Augustin, dopo essere stato nominato farmacista dell’Hotel des Invalides, decise di fare tutto quanto era in suo potere per una missione che potremmo definire umanitaria, cioè porre fine alle carestie che da decenni mettevano in ginocchio il regno di Francia. Più tardi scriverà nelle sue carte che la priorità delle sue ricerche era il cibo del popolo, e il loro scopo era quello di riuscire a migliorarne la qualità e abbassarne i costi.

Costretto a scontrarsi con pregiudizi e resistenze ma convinto della validità delle sue intuizioni, Parmentier organizza una serie di cene e degustazioni a base di patate invitando ospiti illustri, come Benjamin Franklin e Lavoisier. Oltre che un ottimo scienziato Antoine Augustin era infatti anche un abile divulgatore e comunicatore, capace di garantirsi una buona visibilità sui giornali e di spiegare le proprie scoperte alla massa, che cercava di convincere del fatto che la coltivazione delle patate potesse essere portata avanti anche nei terreni più poveri e sterili. Parmentier riesce a convincere anche re Luigi XVI che, incuriosito dalle idee dell’agronomo, nel 1785 gli offre un  appezzamento di terreno, nella plaine des Sablons, alle porte di Parigi, per coltivare i tuberi.  In seguito Luigi XVI farà servire patate alla sua tavola e stabilirà che la patata sia classificata finalmente come pianta utile. Secondo alcune fonti, alla prima fioritura delle patate, Parmentier si sarebbe precipitato a Versailles per mostrare al re il primo risultato dei suoi sforzi, e Luigi XVI avrebbe messo uno di quei fiori tra i capelli di Maria Antonietta, pronunciando questa frase: “La Francia un giorno vi ringrazierà, Monsieur Parmentier, per aver trovato il pane dei poveri”.

Grazie all’opera di Parmentier, a partire dal XVIII secolo le patate si diffondono in tutta la Francia e l’Europa, diventando in breve tempo parte integrante dell’alimentazione quotidiana, tanto che ancora oggi sono tra gli alimenti più apprezzati, soprattutto per la preparazione di gustosi contorni. In omaggio al suo scopritore, alcuni piatti a base di patate presero il suo nome, come le uova Parmentier e il pasticcio (hachis) Parmentier.

Il contributo di Parmentier non si è, però, limitato alla scoperta delle patate, essendo stato farmacista, agronomo, chimico, enologo, nutrizionista e igienista ante litteram, ha influito enormemente su tanti aspetti della cultura alimentare occidentale. Grazie alla sua intelligenza ma soprattutto al suo impegno per la collettività, spinto dal desiderio di eliminare le carestie e migliorare le condizioni di vita delle frange più svantaggiate della popolazione, Parmentier si dedicò allo studio di molti altri prodotti, come le castagne, il mais e il latte. Analizzò anche le proprietà del cioccolato e mise a punto nuove forme di conservazione degli alimenti basate sulla refrigerazione. Infine, fondò una scuola per fornai, dopo aver pubblicato un trattato sulla fabbricazione e sul commercio del pane.

Film e cucina: 5 chef sul grande schermo

Quello tra il cinema e la cucina è un amore di lungo corso, un abbinamento che si rivela spesso e volentieri vincente.
Scorrendo le uscite al cinema degli ultimi anni, non faremo fatica a trovare esempi di pellicole che infarciscono le loro trame con ricette, lunghe scene di pranzi e cene e personaggi dalle spiccate capacità culinarie.
D’altra parte i film raccontano gli essere umani, e nell’ esistenza dell’uomo il cibo e la cucina hanno sempre occupato un ruolo importante, non solo come soddisfazione di esigenze primarie ma anche e soprattutto perché capaci di creare occasioni di socialità e condivisione.
Sempre più spesso però registi e sceneggiatori, per la costruzione di intrecci o personaggi, attingono e prendono ispirazione da quei contesti in cui il cibo e la cucina fanno parte della sfera professionale. Sono sempre più frequenti le incursioni nel mondo dell’alta cucina, dei ristoranti, dei grandi hotel, e soprattutto i riferimenti alla figura dello chef che, per il ruolo carismatico che ricopre, ben si presta, a seconda dei casi, a omaggi o dileggi e a diventare protagonista di molte storie.
Tra i film che hanno messo in primo piano il personaggio dello chef abbiamo individuato i seguenti cinque:

Chef
Citando questo film anticipiamo un po’ i tempi dato che la pellicola uscirà nelle sale solo a maggio 2014, ma considerato il titolo (non proprio originale visto l’omonima pellicola francese di Daniel Cohen del 2012) e la trama, non potevamo proprio evitare di inserirlo nella nostra top 5.
Jon Favreau, attore, regista e produttore statunitense, dirige un film che ha per protagonista un cuoco che lavora in un ristorante di lusso e che, dopo essere stato licenziato, si reinventa come chef di un più prosaico locale, una specie di chiosco-camion ambulante. Il film ha il ritmo e i toni della commedia e si avvale del contributo di un cast stellare: oltre allo stesso Favreau nei panni del protagonista, vedremo gironzolare tra cucine e ristoranti Robert Downey Jr., Scarlett Johansson e, nientepopodimeno che,  Dustin Hoffman.

La cuoca del presidente
Film del 2012, racconta la storia di Hortense Laborie, cuoca provetta che, nominata chef personale del presidente della repubblica francese, desideroso di piatti semplici e preparati come una volta, si ritrova catapultata direttamente dalla sua fattoria nel Périgord all’Eliseo. Ispirato alla storia vera di  Danièle Delpeuch, storica chef di  François Mitterrand, il film è molto interessante poiché, oltre a raccontare una storia singolare che pochi conoscono, fa emergere un aspetto della professione dei grandi chef che spesso rimane nascosta e invisibile: l’altra faccia della medaglia fatta di invidie, boicottaggi e meschinità.

Ratatouille
Delizioso film di animazione ispirato al mondo dell’alta cucina. Anche qui Parigi si impone come capitale mondiale della gastronomia e dell’arte culinaria, mentre l’Italia è rappresentata dall’imbranato sguattero Alfredo Linguini, ma avrà il suo riscatto quando si scoprirà la vera identità del ragazzo. Il film racconta le avventure di Remy, ratto dall’olfatto e il gusto raffinato che, sfogliando le pagine del libro dello chef, suo idolo, Auguste Gusteau, sospira e sogna di diventare un grande cuoco. Con la chiave dell’ironia e del sorriso il film pone l’accento sul tema della passione, ingrediente indispensabile di ogni professionista, capace di far superare ogni barriera e ostacolo. Il lungometraggio ha anche il merito di aver raccontato per la prima volta in un cartone il mondo dell’alta cucina, quello dei cuochi e dei critici gastronomici temuti, dove la competizione la fa da padrona e dove è il numero di stelle a decidere della sorte di tutti, stroncando senza pietà i sogni e la passione di molti. Per la realizzazione del film sono state utilizzate quasi trecento ricette, ognuno dei trecento piatti è stato cucinato realmente e poi fotografato per essere rielaborato al computer.

Chef
Altro film incentrato sulla figura dello chef, che non a caso dà il titolo alla pellicola. Commedia leggera, racconta l’incontro tra un cuoco appassionato e geniale ma un po’ sfortunato e un po’ incompreso, e uno chef affermato in crisi di ispirazione, alla ricerca di qualcosa o qualcuno che possa risollevare le sorti del ristorante in cui lavora. Il noto e amato Jean Reno, insieme a Michaël Youn, anima una storia piacevole e senza pretese che conduce lo spettatore nel mondo della haute cuisine, dove non sempre la passione e il talento bastano. Anzi, dove spesso manager e affaristi dirigono ristoranti e personale qualificato focalizzati esclusivamente sul profitto, senza avere competenze nel settore e incapaci di guardare all’arte della cucina.

Vatel
Vatel è un film di qualche tempo fa, precisamente di quattordici anni fa, che racconta un episodio cruciale della vita del famoso chef della corte del Re Sole, nella Francia del 1600. François Vatel viene incaricato dal suo “principale”, il Principe di Condé, di occuparsi dell’accoglienza di Luigi XIV, ospite presso la dimora dello stesso principe. Il film segue Vatel alle prese con i preparativi ed è un omaggio alla fastosità e alla creatività dei banchetti messi in piedi dal maestro cerimoniere; molte scene infatti descrivono nel dettaglio le fasi preparatorie in cucina o nell’ allestimento. La pellicola si conclude rievocando il gesto estremo di un uomo totalmente assorbito dal proprio lavoro, tanto da sacrificarvi un’intera esistenza.

Marco Gavio Apicio. Lo chef ai tempi dei romani

Il nome di Apicio viene spesso citato per designare uno dei primi cuochi della storia del mondo occidentale: vissuto nel I secolo d.C., secondo alcune fonti sarebbe stato il cuoco ufficiale e personale dell’imperatore Tiberio.
Sull’ identità e la presunta professione del cuoco si nutrono però diversi dubbi, alcuni studiosi tendono addirittura ad escludere l’esistenza di un unico Apicio: la ricostruzione storica corrente ha, infatti, ricondotto questo nome ad almeno tre personaggi differenti, vissuti in tre epoche diverse. Un Apicio del 161 a.C. che, al contrario del più noto degli Apici, si batteva contro lo sperpero alimentare; il famoso cuoco Marco Gavio Apicio, e infine un omonimo che visse sotto l’impero di Traiano e che viene ricordato per essere stato lo scopritore di un metodo per conservare fresche le ostriche.
Se non possiamo affermare con certezza che Marco Gavio Apicio sia stato il primo cuoco in assoluto, sicuramente possiamo dire che sia stato uno dei personaggi più noti all’epoca e uno dei più influenti, capace di condizionare il successivo sviluppo della cucina e della gastronomia nel periodo rinascimentale.
Apicio è infatti l’autore di un trattato intitolato “De re coquinaria” che, tramandato nel corso dei secoli, fu ristampato alla fine del 1400, influenzando i professionisti e gli amanti della cucina rinascimentali.
Il trattato, che in dieci libri affronta il tema della cucina prendendone in esame vari aspetti, tra cui quello merceologico, può essere considerato il primo ricettario della storia. Secondo la versione più accreditata, l’opera deriverebbe dalla fusione di due unità distinte, solo successivamente unite: un testo dedicato interamente alla preparazione delle salse, e un libro di ricette illustrate. Nel trattato di Apicio si trovano informazioni di varia natura, consigli e ricette vere e proprie. Ci sono indicazioni su come conservare i cibi, come distinguere un alimento cattivo da uno buono, suggerimenti per la preparazione della cacciagione e liste di improbabili prelibatezze, per noi del XXI secolo del tutto incomprensibili, come ad esempio calli di dromedario, creste di volatili vivi, usignoli, o “pasticci di lingue di pappagalli parlatori”.
In ogni caso, si tratta di un ricettario particolare, certamente non una guida pensata per i pasti di tutti i giorni, ma la summa di una cucina ideata per stupire. Nel De re coquinaria si descrivono piatti che non venivano di certo consumati dalla gente comune ma che servivano a rendere unici e speciali i banchetti dei patrizi e dei ricchi romani, sempre molto attenti a dimostrare anche con “mezzi culinari” la propria superiorità e il proprio potere sugli altri invitati. Gli alimenti alla base delle ricette di Apicio non erano quelli consumati quotidianamente dai romani, che avevano al contrario una dieta molto semplice, ma erano scelti proprio per la loro stravaganza e fatti portare da chissà dove. Bisogna ricordare che Roma era allora la più grande potenza mondiale, i ricchi potevano così rifornirsi facilmente di qualsiasi prodotto proveniente da una qualunque regione dell’impero.
La fama di Apicio è giunta fino a noi proprio grazie alle ricette curiose e originali che sfoggiava durante i fastosi banchetti dei patrizi, ma anche per l’attenzione che poneva nella manipolazione degli alimenti, per la cura nella decorazione e presentazione dei piatti, talvolta molto scenografica, che anticipa il fasto e l’esagerazione dei cuochi rinascimentali. Apicio segna, in questo senso, una svolta nella storia della gastronomia, facendo del cibo uno status symbol: la concezione dei pasti come occasione di sfoggio e sfarzo, l’idea del banchetto come momento di spettacolo scenografico, la ricerca di pietanze originali e sorprendenti, tutto questo era funzionale all’idea di esprimere la ricchezza e il potere delle classi più abbienti.
Apicio, oltre che ottimo conoscitore della materia culinaria, era un vero buongustaio che amava molto il cibo così come il vino. Alcune fonti riportano che avesse aperto addirittura una sorta di scuola di cucina, dove i figli dei patrizi imparavano e conversavano di prelibatezze passeggiando come nelle accademie dei grandi filosofi. Originale, creativo e appassionato, Apicio dedicò gran parte della sua vita alla sua “professione” e ai piaceri della cucina, tanto che secondo alcuni morì suicida a causa delle condizioni di miseria in cui era caduto a forza di spendere e spandere per i suoi banchetti.
La notorietà del personaggio ha alimentato nel corso dei secoli un numero consistente di aneddoti e dicerie, molte delle quali difficili da credere o da provare. Si dice, ad esempio, che nutrisse le murene con la carne degli schiavi e i maiali con mosto dolce per ottenerne un fegato dal gusto particolare; secondo Plinio il Vecchio, Apicio sarebbe l’inventore del foie gras, sembra infatti che il cuoco romano alimentasse le sue oche con abbondanza di fichi per rendere il loro fegato più grasso e quindi più gustoso. Un’altra delle invenzioni che si attribuisce alla figura dello “chef” è la salsa di Apicio, o esca Apicii, un condimento molto diffuso e in voga ai suoi tempi, da cui sarebbe derivata la moderna scapece, termine con cui si indicano oggi pietanze di vario tipo condite e marinate nell’aceto.

César Ritz, l’ albergatore dei re

Quello di César Ritz è un nome universalmente noto, conosciuto da tutti coloro che lavorano nel campo dell’ospitalità (molte strutture, molti istituti scolastici e professionali sono a lui intitolati) ma anche dai non addetti ai lavori.
La fama degli hotel Ritz è tale, infatti, che la catena alberghiera è diventata, nell’opinione comune, sinonimo di lusso e di eccellenza. A questo proposito, al signor Ritz, già alla fine dell’800, venne attribuito il soprannome di “re degli albergatori” e “albergatore dei re”, proprio per sottolineare il livello dei servizi delle sue strutture e il prestigio dei clienti che aveva l’onore di ospitare.
César Ritz, cameriere svizzero proveniente da una modesta famiglia contadina, è l’uomo che ha costruito un vero e proprio impero del lusso ma è anche la persona che ha rivoluzionato l’intero assetto del settore alberghiero, dandogli l’impostazione che ancora oggi conserva.
La fortuna dell’imprenditore Ritz deriva dalle sue idee innovative e si è fondata essenzialmente su una intuizione: la considerazione che fosse necessario creare delle strutture alberghiere all’altezza di ospitare i nobili e i ricchi borghesi che alla fine dell’800 erano soliti viaggiare frequentemente, per impegni o semplice svago, soggiornando nelle varie capitali europee. Ritz ha intercettato così un bisogno, un target, diremmo oggi, e ha iniziato la sua scalata verso il successo.
Il modello di albergo di Ritz si fondava sui concetti di lusso, raffinatezza ed eccellenza, tre elementi che dovevano trovare realizzazione nell’aspetto esteriore delle strutture ma anche nei servizi offerti. L’idea portante della “filosofia ritziana” era quella di creare degli ambienti in cui politici e grandi industriali potessero sentirsi a loro agio come se fossero a casa propria. César partì quindi dall’arredamento e rivoluzionò la composizione delle camere da letto, le ammobiliò con complementi e oggetti di lusso e le dotò di tutte le comodità tipiche di una residenza signorile, compresa una stanza da bagno privata, fino a quel momento inconcepibile negli hotel di qualsiasi livello.
Gli hotel diretti da Ritz erano capaci di offrire servizi con standard qualitativi molto alti per l’epoca: non erano solo particolarmente eleganti e curati da un punto di vista estetico, ma anche gestiti con una grande attenzione agli aspetti igienico-sanitari. Oltre al bagno privato in ogni stanza, si deve a Ritz l’introduzione dei sistemi di aerazione e ventilazione degli ambienti, della luce elettrica e delle pulizie giornaliere.
Tra le novità apportate da César Ritz c’è anche l’abolizione della table d’hôte in favore dell’introduzione dei tavoli singoli; fino a quel momento in tutte le sale ristorante degli alberghi era prevista la presenza di un unico tavolo comune dove i clienti sedevano e consumavano i pasti insieme, Ritz fu il primo a cogliere la necessità di separare i tavoli e attribuire a ogni ospite o gruppo di ospiti uno spazio riservato, per esigenze di comodità e privacy.

Ma il merito principale che si attribuisce a César Ritz risiede nel fatto di aver modificato la percezione dell’ospite, facendo della soddisfazione di quest’ultimo lo scopo principale dell’intera attività alberghiera. Cambiando l’impostazione del rapporto tra personale alberghiero e clienti, fu il primo a comprendere e applicare la massima “il cliente ha sempre ragione”. Ritz riteneva infatti che il compito principale di un albergatore e del suo staff fosse quello di soddisfare le esigenze e le richieste dei propri ospiti, cercare di accontentarli offrendo loro solo il meglio, ma senza abbassarsi a comportamenti servili. Nella filosofia di Ritz, un buon albergatore doveva essere molto attento, osservare e ascoltare tutto, essere sempre al corrente di ciò che succedeva nella sua struttura ma senza darlo a vedere, avere occhi ovunque senza essere visto, mantenendo e garantendo la massima discrezione. Ritz fu anche il primo a capire l’importanza della personalizzazione del servizio come segno delle cure e delle attenzioni che andavano riservate all’ospite: grazie alla sua memoria prodigiosa, al suo infallibile spirito di osservazione e alle schede su cui annotava le preferenze e i vezzi dei clienti abituali, riusciva a ottimizzare i servizi e rendere il soggiorno presso i suoi hotel un’esperienza unica.
La scalata di César ha dell’incredibile se si considerano le umili origini della sua famiglia e le possibilità economiche di cui disponeva all’inizio della sua carriera, e dimostra quanto l’intuizione e la determinazione siano fondamentali nel raggiungimento di un obiettivo. Ultimo di tredici figli, Ritz entra molto giovane nel settore alberghiero svolgendo il lavoro di cameriere e apprendista sommelier presso l’hotel Couronne et Poste, a Briga. Nel 1867 si trasferisce a Parigi dove continua il suo apprendistato diventando, progressivamente, aiuto sommelier, maitre d’hotel e infine chef, passando per diverse strutture della capitale francese. A soli 19 anni viene assunto nel famoso ristorante Voisin, dove, oltre a perfezionare le sue competenze nell’arte culinaria, entra in contatto con gli esponenti dell’alta società di cui inizia a osservare le abitudini. Riesce così, finalmente, ad avvicinare quei personaggi da cui era tanto attratto, e da buon osservatore quale era, ne studia il modo di esprimersi, di vestire, i gusti; ne intercetta perfino le debolezze. Grazie a tali “studi” riuscirà a sedurre molti di questi nobili e politici e a conquistarsi presso di loro un’ottima reputazione trasformandoli presto in clienti. Le frequentazioni con l’alta società continueranno grazie al lavoro presso l’hotel Splendide e successivamente a Vienna, dove, in occasione dell’esposizione mondiale, ha modo di incontrare monarchi e diplomatici. È da questo momento in poi che la sua carriera prende slancio: Ritz diventa responsabile del ristorante del Grand Hotel di Nizza e poi direttore del Grand Hôtel National di Lucerna, mettendo in campo le sue idee creative e insolite. L’incontro con lo chef Escoffier, uno dei più celebri dell’epoca, segna un’altra svolta nella sua vita professionale; con lui approda al Savoy di Londra, dove i due vengono assunti rispettivamente come direttore e chef del prestigioso hotel, che sotto la loro guida diventa presto un punto di riferimento per il lusso e l’arte dell’ospitalità.
Nel 1898 César inaugura il primo hotel di sua proprietà e con il suo nome, ancora oggi il più famoso e prestigioso, quello situato nell’elegante Place Vendôme di Parigi. Nel celebre hotel parigino prenderanno forma e consistenza tutti principi della filosofia di Ritz: architettura sontuosa, cura maniacale di ogni dettaglio, arredamenti all’avanguardia in fatto di mode e tendenze, cucina di altissimo livello, tutto finalizzato a garantire il benessere e la piena soddisfazione del cliente.
L’hotel di Place Vendôme inaugura la lussuosa e illustre catena di alberghi targati Ritz, di lì a poco infatti furono inaugurati gli omologhi “palace” nelle principali capitali europee, facendo di César Ritz una vera e propria leggenda conosciuta in tutto il mondo.

Pellegrino Artusi. Quando il cuoco diventa detective

Pellegrino Artusi (1820 – 1911), letterato e gastronomo, deve la sua notorietà al fatto di essere l’autore di un libro considerato ancora oggi il ricettario della cucina italiana per antonomasia.
Il trattato La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene, stampato nel 1891 con una prima tiratura di 1000 copie, fu un successo con pochi precedenti all’epoca, un vero e proprio bestseller, o meglio un longseller se consideriamo che negli anni Trenta del ‘900 continuava ad essere il libro più letto dagli italiani dopo I promessi sposi e Pinocchio. Il successo del libro fu inaspettato per lo stesso Artusi, reduce da un paio di flop piuttosto avvilenti: due testi di critica letteraria (La vita di Ugo Foscolo e Le osservazioni in appendice a trenta lettere di Giuseppe Giusti) che nel circuito degli intellettuali dell’epoca non ottennero l’attenzione sperata.
Dopo il rifiuto di alcuni importanti editori come Treves, Barbera e Ricordi, Artusi riuscì a far stampare il suo zibaldone culinario dal tipografo Salvadore Landi, da lì iniziò la sua ascesa incontrastata. Ad oggi La scienza in cucina è tradotto in molte lingue tra cui inglese, spagnolo, francese, tedesco, portoghese e olandese.
Cresciuto nella bottega del padre droghiere, Pellegrino Artusi si trovò immerso fin da piccolo nel mondo della gastronomia, poi i suoi interessi presero una piega più alta e intellettuale, come mostrano le prove da critico letterario. Ma nella sua opera più importante le due direzioni e le due sfere di interesse finiscono per coincidere e fondersi in un ricettario e uno studio sulla gastronomia nazionale che è anche zibaldone con dignità letteraria e trattato scientifico.
L’opera di Artusi è un gustoso (è proprio il caso di dirlo!) volume che per la prima volta raccoglie e mette insieme le ricette della cucina italiana, da nord a sud, e sancisce così gastronomicamente l’unità d’Italia e degli italiani, da poco politicamente uniti.
Ricette regionali scritte ma prima ancora provate e sperimentate dall’autore che, essendo sì gastronomo ma anche un discreto cuoco, non disdegnava di sporcarsi le mani in cucina in prima persona. Spesso si avvaleva dell’aiuto di due “chef” di fiducia,  Francesco Ruffilli e Marietta Sabatini, per verificare l’esatta esecuzione delle ricette e, soprattutto, per assaggiarne i risultati.
La scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene contiene quasi 800 ricette, il numero delle quali è praticamente raddoppiato nel passaggio dalla prima edizione, in cui erano solo 450, all’ultima, che ne contiene 790. L’autore curò personalmente ben quindici edizioni, dal 1891 fino al 1911 e rimaneggiò continuamente il libro integrando i contenuti coi suggerimenti dei lettori raccolti nelle varie città in cui si trovava a soggiornare. Le pietanze prese in considerazione vanno dagli antipasti ai primi, dai secondi ai dolci, senza trascurare neanche i liquori.
Guidato da una mentalità scientifica e dalla fiducia nelle teorie positiviste, Artusi compose il suo ricettario scegliendo un approccio didascalico, ma, nonostante la scelta del titolo altisonante che voleva attribuirgli un certo rigore scientifico, si tratta in realtà di un libro per tutti, nel senso che si rivolge a quanti vogliono imparare a cucinare e non a chi è già esperto del settore. Per dirla con le parole dell’autore, il requisito minimo per consultare e utilizzare come guida La scienza in cucina è che “si sappia tenere un mestolo in mano”.
L’originalità e la bellezza del testo derivano molto, oltre che dall’ interessante selezione dei piatti, dal particolare modo di argomentare che riflette fedelmente la personalità dell’Artusi. Nel brillante manuale le ricette sono inframmezzate da spunti arguti, opinioni, impressioni e aneddoti vari, il tutto condito con ironia e brio, tratti distintivi di Pellegrino.
Pellegrino Artusi è sicuramente un personaggio curioso e molto interessante, per la sua opera certamente, ma anche per l’eterogeneità dei suoi interessi , per la sua formazione, ma soprattutto per la sua carismatica personalità.
La sagacia, la curiosità e l’intelligenza del personaggio non a caso hanno colpito recentemente l’immaginario di uno scrittore toscano, Marco Malvaldi, che ha fatto di Artusi il protagonista di un romanzo giallo (Odore di chiuso, Sellerio, 208 pp.). Nel libro, ambientato nella Maremma dell’Ottocento, il famoso cuoco viene invitato a trascorrere qualche giorno nel castello del barone Bonaiuti dove si ritroverà coinvolto, suo malgrado, in situazioni misteriose e sarà costretto a indagare su una morte sospetta che presto si rivelerà un omicidio premeditato. L’Artusi, guidato dalle sue intuizioni, riuscirà a venire a capo dell’uccisione del maggiordomo Teodoro mettendo in campo un’impeccabile metodo deduttivo come un novello Sherlock Holmes. E non è certo un caso che, da buon letterato e lettore, il gastronomo arrivi al castello di Roccapendente portando con sé proprio un libro di Conan Doyle, autore che ama ma con cui non condivide il piacere dell’investigazione: gli omicidi sono per Pellegrino principalmente una scocciatura che rompe la rassicurante monotonia quotidiana e soprattutto rischia di far saltare i pasti!
Il libro è coinvolgente e soprattutto divertente, assolutamente consigliato a chi ama cibo e letteratura, cucina e scrittura, e a chi vuole scoprire la mitica figura di Pellegrino Artusi sotto una luce nuova e inedita.
Di seguito due assaggi del libro, giusto per far capire che gusto abbia.

” […]
L’uomo di lettere di chiara fama che avrebbe fatto visita al castello non era affatto Giosuè Carducci. E come se non bastasse, non era un poeta. Un romanziere, aveva pensato. Peggio. Il letterato in procinto di scroccare l’ombra e la tavola di Roccapendente era uno che aveva scritto un libro di cucina. Roba da dare la testa nel muro.
[…]
– Non farà mica da mangiare lui, vero?
– Non saprei, nonna.
– Perché io non mangio nulla, se non lo fa la Parisina. Figuriamoci poi un uomo. Ma da quando in qua gli uomini si sarebbero messi a cucinare, poi?
– Molti grandi cuochi del passato erano uomini, nonna. Vatel, per esempio. Brillat-Savarin.
– Io non li ho mai sentiti. E te li hai letti sui libri. Figuriamoci se hai mai mangiato qualcosa di cucinato
da cotesto Brillassavèn. Anche te hai sempre mangiato la roba della Parisina.”

Jean Anthelme Brillat-Savarin

Jean Anthelme Brillat-Savarin
Jean Anthelme Brillat-Savarin

Personaggi della ristorazione: JEAN-ANTHELME BRILLAT SAVARIN (1755-1826)

“Dimmi quel che mangi e ti dirò chi sei”

Vissuto durante la rivoluzione francese, introduce una nuova filosofia di vita legata al cibo. Inventa la figura del “Gastronomo educato” ed enfatizza al massimo l’importanza dell’arte del gusto.

Nel suo libro ” la filosofia del gusto” si parla delle utilità delle cognizioni gastronomiche, del buongusto, della differenza fra il piacere del mangiare e il piacere della tavola e degli influssi comportati dal cibo sulla felicità e sulla longevità della vita delle persone. Molte delle sue massime sono entrate nel linguaggio di uso comune.

Auguste Escoffier

Nato nel 1846, è stato ribattezzato dall’imperatore di Germania Federico II “l’

Auguste Escoffier
Auguste Escoffier

“. Anche se la cucina classica deriva da quella medievale francese, Escoffier è considerato il padre di nuovi metodi di preparazione e regole per il servizio che vengono applicati nei ristoranti dei grandi alberghi. Introduce uno stile di cucina caratterizzato da piatti elaborati e presentazioni sontuose dove le vivande vengono servite su un vassoio e sporzionate al tavolo. Questo stile di cucina è stato adottato dalle strutture ristorative fino agli anni Settant.